Storie: perché noi esseri umani le amiamo?

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Noi esseri umani, come specie, abbiamo una vera e propria dipendenza dalle storie.

Ma perché?

Potresti rispondere perché le storie danno piacere.

Perché ci consentono di evadere dalla nostra realtà.

La vita è difficile, ma nelle storie è facile.

Eppure, se pensiamo che la vita nelle storie sia facile, siamo in errore: i nostri mondi fantastici sono per lo più paesaggi dell’orrore che contengono massacri, omicidi, stupri, minacce, morte, disperazione, paura.

Consideriamo le serie tv più viste: Squid Game, La casa di carta, Vikings (classifica Netflix); o i videogiochi più usati sulla Playstation4 e 5: Fortnite, Call of Duty, Horizon Zero Dawn (classifica Sony), ; o i libri più letti: Il Codice da Vinci, Harry Potter, Lo Hobbit (classifica Mondadori).

In pratica, a prescindere dal genere, se non ci sono problemi intricati non c’è storia.

Storie di problemi

In tutto il mondo le storie riguardano quasi sempre delle persone con dei problemi.
Le persone vogliono a tutti i costi qualcosa: sopravvivere, conquistare l’amore, ritrovare qualcuno.

Tutte le storie, romantiche, avventurose, tragiche, comiche, sono incentrate sugli sforzi del protagonista per ottenere ciò che desidera.

Questo è lo schema di base classico per tutte le storie del mondo:

PROTAGONISTA + PROBLEMA + TENTATIVO DI SUPERAMENTO

Scrittori come James Joyce, Marcel Proust e Gertrude Stein hanno provato a uscire dai confini di questo schema, con il risultato che un libro come FINNEGANS WAKE è impossibile da amare.

Possiamo definire questo libro semplicemente un esperimento estetico, che di sicuro non ci appassionerà mai, non ci terrà incollati alle sue pagine per sapere come andrà a finire. E che di solito solo gli universitari fingono di aver letto perché costretti.

Te ne riporto un passo, è il paragrafo di apertura:

rivierra,

passato Eva ed Adamo,

deviando dalla costa

e curvando alla baia,

ci riporta

lungo un commodio vicus

di ricerchio

finn ad Howth, Castello Edintorni.

Per la cronaca: il libro, di quasi 700 pagine, è scritto per intero in questa lingua che voleva essere un atto di rivolta estetica.

Ma torniamo a noi.

Perché le storie che ci appassionano rispettano in modo così costante la struttura basata sul problema?

Jonathan Gottschall, nel libro “L’istinto di narrare”, afferma che la struttura basata sul problema riveli una delle funzioni principali dello storytelling: suggerisce che la mente umana sia stata modellata PER le storie, in modo da poter essere modellata DALLE storie.

Secondo i teorici dell’evoluzione come Steven Pinker, le storie costituirebbero lo spazio nel quale gli individui si esercitano a usare le competenze più importanti della vita sociale umana.

Queste competenze si dividono in tre macrocategorie:

  1. Competenze personali: resilienza, responsabilità, dedizione, motivazione, curiosità, autodisciplina, autocontrollo, autoriflessione, fiducia in sé stessi;
  2. Competenze sociali: sensibilità, empatia, capacità d’integrazione, flessibilità, capacità comunicative, spirito critico, capacità di fare in gruppo, capacità di interagire;
  3. Competenze metodologiche: capacità di analisi, organizzative, di presentazione, di risolvere i problemi, di resistenza allo stress, di gestire i media digitali.

Secondo questa teoria, le storie ci preparano alle grandi sfide del mondo sociale, simulando i problemi del mondo reale.

Come la finzione ci prepara ai problemi reali

Come fanno le storie a prepararci ai problemi del mondo?
Per rispondere a questa domanda, c’è bisogno di introdurre il concetto dei neuroni specchio.
Si tratta di cellule neuronali scoperte negli anni Novanta da un gruppo di neuroscienziati italiani, tra cui Marco Iacoboni, che dice:

“I film e le storie ci avvincono perché nel nostro cervello i neuroni specchio ricreano per noi il dolore o la gioia che vediamo sullo schermo o leggiamo su una pagina. Entriamo in empatia con i personaggi immaginari, quindi proviamo ciò che stanno provando, perché noi stessi sperimentiamo quelle identiche sensazioni attraverso i neuroni specchio”.

Naturalmente ci sono neuroscienziati che ci vanno più cauti e non danno tutto questo potere ai neuroni specchio.
Eppure, una cosa è certa: se con il pensiero mostriamo al nostro cervello una immagine, lui crederà a quell’immagine, anche se inventata.

Oltretutto i numerosissimi studi di laboratorio eseguiti negli anni hanno dimostrato come le storie influiscano su di noi anche a livello fisico, oltre che mentale.
Quando il protagonista di un racconto si trova in difficoltà, le nostre pulsazioni aumentano, il respiro accelera e sudiamo di più. Se stiamo guardando un horror, quando la vittima viene aggredita, ci tendiamo in posizioni di difesa.
Subito prima dell’aggressione, tratteniamo il respiro.
Se guardiamo un film comico ci sbellichiamo dalle risate, nel momento clou di un dramma ci vengono le lacrime agli occhi.

In pratica, il fatto di sapere che la finzione è finzione non impedisce al nostro cervello di elaborarla a livello di emozioni come se fosse reale.
Lo stesso accade con i videogiochi.

Questi studi sul cervello e la finzione sono coerenti con la teoria secondo cui le storie sono simulazioni di problemi reali.

Sembra quindi convincente la teoria secondo cui la nostra immersione totale nei problemi finzionali possa migliorare la nostra capacità di affrontare i problemi reali.

E ci allena alle abilità sociali

Quando facciamo pratica di una competenza specifica, miglioriamo nell’esecuzione perché ripetiamo i compiti fino a che il nostro cervello non li ha interiorizzati, trasformandoli in abitudini.
È proprio questo il motivo per cui ci esercitiamo: per scavare solchi nel cervello in modo da rendere le nostre azioni più veloci, incisive, sicure.

Il modello di simulazione che ho appreso dagli studi di Gottschall funziona grazie alla nostra memoria implicita, cioè tutto quello che il nostro cervello sa, ma che noi non sappiamo di sapere.

Sembra un concetto difficile, ma non lo è: quando guidiamo l’automobile abbiamo bisogno di dare i comandi al nostro cervello per cambiare le marce o spostare il piede dal freno, all’acceleratore alla frizione? No, lo facciamo automaticamente.
Quando camminiamo, abbiamo bisogno di dire al nostro cervello di muovere prima un piede e poi l’altro? No, lo facciamo in automatico.
Il modello di simulazione si basa su studi secondo cui “la ripetizione realistica di qualunque abilità porta a prestazioni migliorate a prescindere dal fatto che gli episodi di allenamento siano esplicitamente ricordati”.

L’idea, quindi, è questa: la finzione, espressa con qualunque mezzo narrativo, è una potente tecnica di realtà virtuale che simula i grandi drammi e i grandi problemi della vita.
Di conseguenza, siamo attratti dalle storie perché sono vantaggiose per noi.
La finzione consente al nostro cervello di fare pratica con le reazioni a quelle sfide che sono sempre state e sempre saranno le più cruciali per il nostro successo come specie.
Quelle che hanno a che fare con il nostro essere sociali.

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